Turandot a distanza: una nuova metodologia del lavoro registico nel tempo della pandemia
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di Michal Znaniecki | ||
Data di pubblicazione su web 22/12/2020 |
Michał Znaniecki
Nel 2019 una grande coproduzione internazionale all’aperto della Turandot di Giacomo Puccini è stata annunciata e, di lì a non molto, smentita. I teatri coinvolti – estoni, polacchi, greci, ungheresi e soprattutto quelli italiani – si sono ritirati dal progetto a causa delle restrizioni pandemiche e dei lockdowns. Il 2020 è stato un anno atipico. Un anno dove on line è diventato the new black. Archivi digitali, trasmissioni in streaming, registrazioni pirata hanno occupato la rete con prodotti spesso senza qualità, rinnegando il nucleo fondamentale dell’arte lirica: artisti e pubblico dal vivo.
Quale è stato, dunque, il mio stupore quando l’Opera Nazionale di Lviv, in Ucraina, mi ha richiamato confermando le date della produzione per il novembre 2020. E questa volta niente coproduttori, niente spettacolo di massa all’aperto, niente artisti stranieri, ma in compenso… il pubblico. Non potevo dire di no. Invece sono state chiuse le frontiere. Con lo scenografo in Italia (zona rossa), la coreografa in Grecia (lockdown) e io, il regista, in Polonia senza il permesso di abbandonare il mio domicilio per ragioni di quarantena.
Turandot: complessità del progetto
Ero appena uscito da una timida esperienza di condurre le prove “da remoto”. D’altronde, la didattica a distanza è già entrata nella norma e diventata prassi accademica. Come professore di diverse università e accademie ho escogitato un sistema che potesse soddisfare – per la parte pedagogica, se non per quella performativa – sia me che gli studenti.
Nell’ottobre 2020 La voix humaine di Poulenc è stata la mia prima regia operistica diretta, almeno all’inizio, solo on line. Sembrava una missione facile: uno spazio ridotto, una sola cantante, un atto unico. Il Teatr Wielki di Łódź – al cui interno c’erano più di cinquanta contagi – ha provveduto ad aggirare così la quarantena. Si è quindi deciso di cominciare le prove via Skype: il maestro preparatore a casa, la cantante in sala prove, il regista in un hotel: tutti collegati a distanza.
L’esperienza si è poi conclusa dal vivo. Per le prove generali il teatro ha aperto le porte e ho potuto assistere in diretta. Così ho verificato tutto quello che Skype aveva omesso e storpiato con la cattiva qualità della connessione. Invece, purtroppo, si è dovuto interdire la “prima” al pubblico. Il teatro di Łódź ha deciso di trasmetterla in televisione. Insoddisfatto, mi sono buttato nella nuova avventura ucraina.
Turandot è un’opera molto più complessa della Voix humaine. Oltre a essere strutturata in tre atti, e a richiedere un apparato tecnico-organizzativo molto più imponente, esige la coordinazione di due cori, numerosi solisti, comparse, bande di palcoscenico e infine… presuppone tradizionalmente alte aspettative del pubblico. La narrazione è abbastanza lineare (per non dire schematica) e ciò mi ha tranquillizzato sul come e quando “semplificare” la drammaturgia: le mie sono messe in scena che cercano di ascoltare la volontà del compositore, mentre spesso non rispettano le didascalie e le tradizioni esecutive.
La mia lettura per il teatro ucraino si concentrava sulla decadenza dell’impero sotto il governo (condiviso con il padre?!) della principessa Turandot. La ricostruzione fiabesca di un Puccini “orientale”, fantasioso nella scenografia e nei costumi, mi sembrava possibile: un maggior realismo s’imponeva solo nelle relazioni tra figli e padri (Calaf/Timur, Turandot/Imperatore) e nella costruzione della psicologia di Liù come fattore scatenante, con la sua morte, della messa in crisi dell’impero. Quindi il mio spettacolo si concludeva con la morte di Liù. Ma non per lo scrupolo “filologico” di evitare di proporre quel duetto finale che Puccini non arrivò a scrivere se non sotto forma di abbozzo. La mia era una scelta diversa, che per la direzione di un teatro come quello di Lviv – un teatro che ama sperimentare e non teme di allontanarsi dalla tradizione – è apparsa importante: Timur, piangendo sul corpo di Liù, chiede vendetta e uccide Turandot, chiudendo così il cerchio narrativo padre-figlio. Nonostante il pubblico si aspettasse uno spettacolo “spartiacque”, gli spettatori non hanno mancato di sorprendersi.
Per il resto, è stato un allestimento “classico”. Senza grandi sconvolgimenti. C’erano il muro cinese (scene di Luigi Scoglio), i costumi strabilianti (Małgorzata Słoniowska), la luna (proiezioni del light designer Dariusz Albrycht), il Principe di Persia incarnato dal primo ballerino del teatro: tutti elementi perfettamente gestibili anche da prove on line. L’unico dubbio era legato alle azioni del coro. Non solo perché quello di Lviv è di novanta elementi, ma anche perché, a causa di restrizioni, avrebbero dovuto lavorare a turni, saltando molte prove. Proprio l’uso del coro è stato per me il più grande ostacolo prima di accettare. Mi aspettavo di dover scendere a molti compromessi sulle idee che avevo circa il suo utilizzo: dunque, ho iniziato a cercare per tutta la drammaturgia dello spettacolo quale potesse essere il nuovo “luogo” del coro. Questo è stato l’unico cambio strutturale del concetto originale della mia regia. Un cambio che si è trasformato in una chiave di lettura.
La decisione di modificare le azioni del coro ha potuto così rientrare in una dimensione interpretativa. Creando uno spettacolo pieno di effetti scenici, ma costruito su un dualismo spaziale: un dentro e un fuori. Il muro divideva due mondi, il pubblico e il privato. Da una parte, in uno squarcio della muraglia corrosa, le cerimonie mortali del decadente impero pechinese; dall’altro il proscenio, trasformato nello spazio delle emozioni e del lavoro introspettivo sui personaggi (uno schema, per inciso, che poteva aiutare nelle prove a distanza). Tuttavia il coro, secondo il libretto, partecipa molto alle azioni e, per ovviarvi, la mia scelta è andata verso il modello della tragedia greca. Quindi, un coro fisso. E fisso sino all’esasperazione: fermo, congelato, “impietrito”. Questa soluzione ha permesso di scaricare le responsabilità su diversi gruppi della produzione. Le azioni sceniche dei coristi sono state divise tra le comparse e il corpo di ballo, mentre il coro è rimasto fermo come simbolo della città murata. Città senza emozioni. Città dove gli abitanti sono stati trasformati in guerrieri di terracotta. Solo la morte di Liù poteva smuovere l’incantesimo e far tornare l’anima in ogni figura.
Così il coro, oltre ad essere immobilizzato, è diventato portatore del messaggio-chiave dello spettacolo. La sua trasformazione “mistica” dalla pietra alla vita, grazie al vero sentimento apparso nella città gelida di Turandot, diventa una vera chiusura del cerchio interpretativo. Non una semplificazione per immobilizzare gli artisti, ma un’idea forte e coerente del regista moderno.
La de-costruzione e le soluzioni tecniche
Una volta deciso di intraprendere l’esperienza a Lviv ho cominciato il lavoro dal “riconoscere il nemico”. Quali elementi del lavoro potrebbero soffrire di più la mancanza fisica del regista in teatro? La rifinitura del particolare? Le indicazioni ai cantanti? La coordinazione dei movimenti? La relazione con spazio scenografico e personaggi (spesso capita, spostandosi dalla sala prove al palcoscenico reale)? Ognuno di questi fattori doveva essere analizzato. Disossato. Sminuzzato. Dissociato in elementi primari. Il che, nel finale del lavoro, è diventato: schematizzato.
Uno degli esercizi più interessanti del metodo Lecoq nell’arte del recitare è la suddivisione di una semplice azione in venti gesti o movimenti. Sedersi su una sedia significava guardarla, avvicinarla, piegare la testa, toccare il poggiolo, chinare il ginocchio, eccetera. Dopo venticinque anni di carriera registica ho dovuto fare lo stesso trattamento. Ridurre a elementi primi le azioni che mi sembrano “normali”, “ovvie”, “scontate”. Un gran lavoro di analisi minuziosa che diventerà uno dei più grandi bagagli di questa esperienza. Solo così potevo capire quali attività si danneggiavano lavorando a distanza. È stato importante eliminare paure e dubbi, rimanere fissi nel freddo proposito analitico.
A ogni elemento avevo assegnato soluzioni: solo quando ne mancava una andavo verso l’eliminazione o modificazione del progetto. La coreografia si doveva reggere sui video demos e prove con coreografa. La scenografia esigeva diverse angolazioni di telecamera e tanti corrieri internazionali con campioncini e materie. Il lavoro con i solisti richiedeva un buon assistente, un traduttore e contatti diretti (privati) via Whatsapp tra il regista e il cantante. Il lavoro con le comparse e i bambini del coro di voci bianche è stato affidato a grandi maestri di palcoscenico, che usano schemi artigianali – antiche maestrie dei teatri di repertorio – ormai assenti nei teatri europei.
Asciugata e anatomizzata la costruzione, dunque, si arrivava a trovare le soluzioni. Invece di divagare su alcuni temi interpretativi, la tecnologia esigeva una sintesi. Un vettore di movimento. Una direzione precisa. I giochi di parole, le ironie, quegli scherzi che spesso scaricano la tensione dovevano essere evitati. Ogni espressione del mio viso, ogni parola detta da quel megaschermo messo in platea accanto al direttore d’orchestra diventava un dogma. Nessuno osava discutere con Grande Fratello-Prospero-Demiurgo. La paura di avere una connessione interrotta in qualsiasi momento rinforzava quella sensazione dell’assoluto. E io dovevo formulare messaggi diretti, pronti, chiari. Insomma, ben preparati.
Tutta l’azione scenica era disegnata sulle piante schematiche della scenografia. Ogni passo era diventato una freccia descritta con annotazioni e riferimenti allo spartito. Ogni spostamento dei ballerini o delle comparse veniva accompagnato con le icone di oggetti-attrezzeria. I colori delle linee e una serie di vettori diversificavano i personaggi. Ogni rigo della musica aveva il suo disegno e la sua spiegazione. Grazie a questo sistema ero riuscito a sorprendere tutti montando la struttura del primo, secondo e terzo atto in tre prove. Su questa costruzione eravamo liberi di aggiungere motivazioni, incongruenze, emozioni: in breve, la vita dei personaggi.
Questa fase diventava più complessa, tanto più che si trattava di lavorare con quattro diversi cast. Per parlare delle intenzioni devi avere già una relazione umana con il tuo interprete. Sapere quali sono i suoi limiti, i suoi talenti, i suoi blocchi, le sue aspettative di artista. In questa fase soccorrevano i messaggi vocali con Whatsapp e le conversazioni senza traduttore: non è facile ammettere la propria paura di fronte a tutti (e i microfoni di Skype arrivavano fino agli uffici del teatro).
Non conoscevo il cast. Tutti i cantanti appartenevano alla famiglia del Teatro nazionale ucraino: un sistema di lavoro, valutazione e interpretazione diverso dal mio. Quello che nelle mie esperienze con gli artisti europei – e, ancora più, con quelli americani – mi era sembrato facile qua si scontrava con la tradizione di un’altra scuola. Possiamo dimenticarci la fisicità di Grotowski e tornare alle basi di Stanislawski. Sono ammiratore di tutti e due, ma come sappiamo, nell’ultima fase di lavoro didattico le loro teorie si sono quasi sovrapposte. In Ucraina nessuno pensava però a queste sfumature, le domande degli artisti riguardavano più la vita psicologica che quella fisica del personaggio. Invece il mio metodo, soprattutto in una situazione a distanza, proponeva un movimento o situazione come spunto per costruire un personaggio scenico. Dalla fisicità di una scena si arrivava alla sua emozione senza approfondire i traumi dell’infanzia.
Questo non vuol dire che la mia messinscena non entrava nei meandri della psiche umana. Anzi, la relazione tra Calaf e suo padre (abbandonato dal figlio) è stata la chiave registica di tutte le azioni del tenore. Quasi una Turandot come capitolo della guida freudiana dei complessi edipici: che però, in questo caso, venivano spiegati in una sequenza di azioni-reazioni tra figlio e padre. L’egocentrismo e il narcisismo di tutti e due erano costruiti in una danza di piccoli gesti di rifiuto, abbandono, noncuranza. Le reazioni emotive scaturite da ogni movimento approdavano così a una rete di intenzioni, senza dover spiegare che cosa fosse successo nel passato tra il figlio e il padre in questione.
Non tutti i solisti capivano il sistema, però dovevano fidarsi: non c’era tempo né occasione per fare domande. Nel collegamento Internet seguivano le prove del ballo su cui era spostato l’enorme peso drammaturgico del primo atto. All’alter ego di Calaf – il Principe di Persia – è stato trasferito tutto quel ruolo narrativo secondo cui normalmente il coro corre, cade, trascina, combatte contro le guardie, ammira la luna e la principessa. Mentre qui i coristi restavano, appunto, bloccati come metaforiche figure impietrite. Un esercito di terracotta.
Il lavoro con i ballerini si svolgeva in due modi: con i demos preparati dalla coreografa in Grecia (con allievi di una scuola di danza) e con i video della coreografa stessa (visto il lockdown e l’impossibilità di spostamenti dei ballerini-campioni). Una volta arrivate le registrazioni il maestro di ballo del teatro preparava danzatori e danzatrici, mentre la coreografa Diana Theocharidis correggeva le loro prove in diretta Skype. Altre preoccupazioni riguardanti la modalità “a distanza” venivano risolte strada facendo.
Due cose sono rimaste come limiti di questa esperienza, e sono quelle che mi sono mancate di più: l’inevitabile mancanza di una visione a trecentosessanta gradi e l’intimità di relazioni con gli artisti. Quell’impossibilità, insomma, di creare con loro un codice di comunicazione fatto di battute, barzellette, ironia, autoironia. L’incontro produttivo di ogni spettacolo crea una vera famiglia. Preferenze, simpatie e antipatie, avvicinamenti e giochi di potere sono alle base della vita di ogni gruppo che condivide gli stessi obiettivi, le medesime paure. Qui la mancata presenza del regista sembrava un fatto quasi doloroso.
Quanto alla visione a trecentosessanta gradi che mi è venuta meno, è in fondo una metafora del controllo e della partecipazione “totale” a una produzione da parte del regista. Non potendo esserci dal vivo, non potevo seguire i discorsi sindacali, vedere i problemi tecnici dietro le quinte, partecipare alle riunioni di gestione o di emergenza. Non potevo neppure semplicemente girarmi in platea per studiare le reazioni dei primi spettatori: addette alla pulizia o bidelli che, durante le prove, appaiono sempre nel teatro vuoto e ridono, si trattengono con la scopa in mano oppure proseguono senza interesse. Queste sono le prime dritte che riceve il regista: i primi commenti di un pubblico vero, un pubblico popolare. Altro problema grave poteva essere la mancanza di una verifica di colori, atmosfere, sfumature delle luci e delle proiezioni. La telecamera modifica e falsifica di gran lunga tutti i parametri. Per fortuna il mio light designer è stato presente per tutto il tempo delle prove generali.
Se il sistema tecnologico sembrava abbastanza complesso, il teatro di Lviv è stato preparato a regola d’arte per condurre e trasmettere le prove via Skype (c’erano quattro responsabili alla connessione e alla sua qualità): schermo gigante messo in prima fila accanto al direttore d’orchestra; microfoni che raccoglievano voci dei solisti, coro e orchestra distribuiti in quattro linee; e la mia voce che, grazie agli altoparlanti, arrivava alla platea come al proscenio, al fondo palcoscenico, dietro le quinte.
Intanto stavo in contatto diretto via Whatsapp con la mia assistente e l’assistente della coreografa. Il direttore tecnico riceveva le domande via Messenger per non sovraccaricare le linee Whatsapp. La mia scrivania sembrava un’autentica postazione di comando. Due schermi, quattro telefoni, disegni tecnici di ogni scena, due penne per gli appunti, macchina fotografica e telecamera per qualche dimostrazione ad hoc da inviare nelle pause di prova. Il mestiere del regista è una professione di coordinazione. Questa esperienza lo ha dimostrato e sottolineato ancora di più.
La verifica
Arriva il momento della verifica. La prima. Normalmente, per un regista, è anche un momento di impotenza. Per questo motivo non guardo i miei spettacoli. Non posso migliorarli, correggerli, avvertire di qualche pericolo. Sono gli interpreti che devono gestire da soli il nuovo fattore, cioè il pubblico. Aggiustano le mie indicazioni, si adattano alle nuove condizioni: reazioni, sussurri, risate. Il regista, nel fondo della sala buia, ormai è superfluo. Tutto è nelle mani dei cantanti-attori.
Nel caso del lavoro in Ucraina ho sfruttato un nuovo elemento: la telecamera che ci aveva accompagnato durante le prove. Senza poter assistere alla prima dal vivo ho chiesto di girare la telecamera verso… gli spettatori. E ho potuto vedere reazioni, incomodità, sconvolgimenti. Seguendo, in questo, l’esempio di due grandi maestri: da un lato il mio professore a Bologna – Umberto Eco – e la sua Opera aperta, dall’altra il mio idolo – Ingmar Bergman – e il suo Flauto magico. La telecamera, nei primi accordi ad alzar di sipario, seguiva gli sguardi e spiava le emozioni del pubblico. È lui il vero creatore dell’oggetto d’arte.